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Pietro Mennea, dieci anni senza “la freccia del Sud”

Roberto Mercaldo
L’atleta simbolo dello sport italiano è vivo nei ricordi più belli di tutti gli sportivi
Marzo 21, 2023
Pietro Mennea (Foto: Ansa)

Muore giovane chi è caro agli dei, affermavano gli antichi greci nel tentativo di anestetizzare un dolore troppo grande. Sofferenza e sacralità in binomio perfetto per rendere accettabile ciò che la ragione faticava a ritenere tale.
Qualche secolo dopo, senza scomodare l’Olimpo, ci troviamo ad avallare l’affermazione quando, parlando di un grande atleta andato via troppo presto, diciamo che ha lasciato la storia per entrare nella leggenda.
Forse però Pietro Paolo Mennea da Barletta leggenda lo era anche in vita, perché quel che fece con le scarpe chiodate, le sue gambe e il suo cuore travalicò i confini del possibile per toccare quelli del sogno.
Non era un superman, il giovane Pietro, non era bello e armonioso come gli eroi greci.

Era un ragazzo dalla struttura fisica normale, un ragazzo un po’ introverso che amava correre. Correva veloce, molto veloce, al punto che a soli 20 anni arrivò a disputare la sua prima finale olimpica sui 200 metri. A Monaco di Baviera, in quei Giochi funestati dall’azione terroristica del gruppo “Settembre Nero”, il giovane barlettano corse i primi 100 metri con cautela esagerata. Di fronte aveva Valerj Borzov, l’imbattibile campione sovietico, e poi tante “frecce nere”, da sempre i depositari del verbo della velocità. Il rettilineo, che sarebbe stato per tutta la carriera il suo autentico punto di forza, gli consentì di recuperare posizioni su posizioni, fino ad agguantare il gradino più basso del podio: terzo, dietro Borzov e Larry Black. Cominciava così, con una medaglia a cinque cerchi, 12 anni dopo l’oro romano di Livio Berruti, una carriera formidabile, unica, straordinaria.

PIETRO MENNEA, IL RECORD DEL MONDO E POI L’ORO DI MOSCA

Pietro Mennea divenne presto il simbolo non solo dell’atletica, ma di tutto lo sport azzurro.
Con il professor Vittori, uomo di sport e di scienza, spigoloso e inflessibile quasi quanto il suo allievo, formò un binomio che forse non rese felici i giornalisti “gossippari” e sensazionalisti, ma che in pochi anni aggiornò le tabelle dei record e il palmares azzurro della velocità.
Trascinati da questo formidabile campione, anche altri velocisti crebbero, dando una mano importante alla 4X100, che con Pietro in ultima frazione divenne all’improvviso una potenza internazionale.
Mennea conquistò l’oro europeo dei 200 e l’argento dei 100 a Roma nel 1974 e battè Borzov nella Coppa Europa a Nizza, l’anno successivo. Nel 76 all’appuntamento olimpico di Montreal si presentò con una forma precaria che però non gli impedì di raggiungere la finale e di chiudere al quarto posto.

Nel 78 a Praga vinse l’oro tanto nei 100 che nei suoi 200 e nella stagione successiva si prese quel che gli spettava, il record del mondo nel mezzo giro di pista.
A Città del Messico, nella finale delle Universiadi, Pietro Mennea fermò infatti il cronometro sul tempo di 19”72. Sarebbe rimasto record del mondo fino al 1996 e ancora oggi, 44 anni dopo, è il record europeo della specialità.
Per completare il capolavoro mancava solo un oro olimpico e l’oro arrivò a Mosca, nel 1980, con la Freccia del Sud che portò a compimento la più sensazionale rimonta della storia dello sport, andando a riprendere e a superare proprio sul filo di lana lo scozzese Allan Wells, poderoso velocista che in partenza aveva subito affiancato Pietro, penalizzato dall’ottava corsia.
Due soli centesimi per un trionfo. Mennea, primatista mondiale dei 200 ed europeo dei 100, campione olimpico e pluricampione europeo, pensò potesse bastare così e annuncio nell’81 il suo ritiro, per dedicarsi alla studio.

Per fortuna però nell’anno successivo decise di tornare in pista e così conquistò una medaglia anche ai primi campionati del mondo della storia dell’atletica, nel 1983.
A Los Angeles Pietro Paolo Mennea, l’uomo normale dalle gambe più veloci del mondo, conquistò la sua quarta finale olimpica dei 200 metri. C’era già Carl Lewis, il figlio del vento, e Pietro non era più l’atleta capace di scendere sotto i 20 secondi, ma grazie all’ennesimo miracolo della sua feroce volontà centrò l’ingresso in finale e chiuse al settimo posto. Quattro anni più tardi, dopo un secondo ritiro e un nuovo ritorno, fu il portabandiera italiano a Seul, dove superò il primo turno e poi disse basta con lo sport che lo aveva reso un mito.

L’UOMO MENNEA GRANDE QUANTO L’ATLETA

L’umiltà conservata a dispetto di successi sportivi pressoché ineguagliabili, un una disciplina riservata per natura a velocisti caraibici e nordamericani, fu un ulteriore elemento di straordinarietà di questo ragazzo del Sud, schivo e quasi allergico alle interviste, ai riflettori, ai riflessi abbaglianti della celebrità.
Mennea fu la sublimazione di ogni desiderio impossibile, l’allitterazione della virtù, il riflesso di un sogno che esonda e trascina la realtà dove nessuno arriva a cercarla.
Non dovendosi più dedicare agli allenamenti, impiegò il tempo nello studio e conseguì quattro lauree. Entrò in politica, chi l’avrebbe mai detto, e svolse il suo compito con la stessa diligenza che impiegava nella pratica sportiva. Uomo curioso, di quella curiosità che scavalca gli ostacoli e le montagne, uomo normale nella sua unicità.
Mennea salutò con discrezione la platea del mondo dieci anni or sono, nel primo giorno di primavera. Immaginiamo corra ancora nel silenzio e nella luce, in quel mistero che ha inseguito con troppa velocità. Era forse inevitabile, per Pietro Paolo Mennea

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