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“Autonomi più poveri dei dipendenti”. Lo studio della Cgia: dopo la pandemia, artigiani e partite Iva a rischio sommerso

Redazione
Le uniche categorie che, invece, hanno visto aumentare notevolmente la situazione di marginalità economica sono le famiglie che vivono di pensione.
Ottobre 24, 2022

I lavoratori autonomi sono a rischio povertà più dei lavoratori dipendenti. “Nel 2021 il rischio povertà o esclusione sociale delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo è stato superiore a quello dei nuclei che, invece, vivono con uno stipendio fisso”. Lo mette nero su bianco l’ultima ricerca condotta dall’ufficio studi della Cgia, associazione di categoria delle piccole e medie imprese, sugli ultimi dati Istat disponibili.

L’ennesima dimostrazione, di come il cosiddetto popolo delle partite Iva (artigiani, commercianti, lavoratori autonomi, liberi professionisti, etc.) finisca con l’avere meno sicurezze e più difficoltà economiche dei lavoratori dipendenti. Una situazione che si è fatta ancora più preoccupante dopo oltre due anni e mezzo di emergenza sanitaria, che tra chiusure per decreto e limitazioni alla mobilità hanno messo in ginocchio, in particolar modo, una gran parte dei titolari di botteghe e di negozi di vicinato. Provvedimenti che, certamente, hanno colpito anche le maestranze, che però hanno in qualche modo visto attutito l’impatto dal ricorso agli ammortizzatori sociali.

La crudezza dei dati dice questo: nel 2021, secondo l’annuale indagine campionaria realizzata dall’Istat, la percentuale di famiglie con reddito principale da lavoro dipendente che si trovava a rischio povertà o esclusione sociale era al 18,4 per cento; la percentuale di rischio per quelle con reddito principale da lavoro autonomo era invece del 22,4 per cento.

Va detto anche che, rispetto agli anni precedenti, l’incidenza è scesa in entrambe le tipologie familiari. E questo viene spiegato tramite gli aiuti messi in campo dagli ultimi governi: tra bonus, ristori, contributi agevolati e crediti di imposta, nel biennio 2020- 2021 i governi che si sono succeduti hanno messo in campo circa 180 miliardi di euro che, in parte, sono riusciti ad ammortizzare gli effetti della crisi su famiglie e imprese.

Le uniche categorie che, invece, hanno visto aumentare notevolmente la situazione di marginalità economica sono le famiglie che vivono di pensione; l’incidenza dal 31,8 per cento del 2019 ha toccato il 33,9 per cento del 2021.

La ricerca della Cgia rivela anche un altro fenomeno: con la pandemia sono diminuiti i lavoratori autonomi e ci sono più lavoratori dipendenti: “A distanza di 30 mesi dall’avvento della pandemia – si legge nel report -, in Italia abbiamo recuperato il numero degli occupati. Se tra il febbraio 2020 (mese precedente l’arrivo del Covid) e lo scorso mese di agosto (ultimo dato reso disponibile dall’Istat) abbiamo 56 mila occupati in più, le due componenti che costituiscono l’intero stock (lavoratori dipendenti e autonomi) presentano, invece, risultati di segno opposto. Il numero dei lavoratori autonomi, infatti, è sceso di 155 mila unità. Se prima della pandemia erano poco meno di 5,2 milioni, ad agosto si sono attestati a poco più di 5 milioni. Il numero dei dipendenti, invece, è aumentato di 211 mila unità. Prima della pandemia ne avevamo poco più di 17,8 milioni, quest’estate il numero è salito a poco più di 18 milioni. Sebbene in crescita, va comunque segnalato che tra i lavoratori dipendenti si è ridotto il numero di coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre sono aumentati i lavoratori a “termine”.

Una possibile lettura di questo fenomeno è che tanti autonomi siano ‘scivolati’ verso il sommerso.

Quando un autonomo chiude definitivamente l’attività non dispone praticamente di alcuna misura di sostegno al reddito. “Perso il lavoro ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di una nuova occupazione. In questi ultimi anni, purtroppo, non è stato facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento hanno costituito una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero. Fino ad una decina di anni fa aprire una partita Iva era il raggiungimento di un sogno: un vero status symbol. L’opinione pubblica collocava questo neo-imprenditore tra le classi socio-economiche più elevate. Oggi, invece, non è più così: per un giovane, in particolar modo, l’apertura della partita Iva spesso è vissuta come un ripiego o, peggio ancora, come un espediente che un committente gli impone per evitare di assumerlo come dipendente”.