“Dedico questa vittoria a una mia zia che non sta bene: non so per quanto tempo farà ancora parte della mia vita”.
Il super campione Sinner scende dall’Olimpo su cui l’hanno posto il talento e il lavoro per parlare di sentimenti, di affetti familiari, di problemi della quotidianità.
A volte ci viene spontaneo pensare che le star vivano su una dimensione parallela, una rutilante passerella dell’enorme, un sempiterno orizzonte di gloria, sul cui altare sacrificare i frammenti di normalità che la vita dispensa senza discernere.
Invece Jannik, che ha appena vinto il suo secondo major, tacitando le velleità di un Taylor Fritz baldanzoso alla vigilia ma a capo chino a fine match, non dimentica che la vita è fatta prima di affetti, di radici, di gente che ti vuol bene. Poi c’è il mondo, che per lui è lo splendido mondo del circuito ATP, del quale da quasi 4 mesi è il re. Ora il suo vantaggio nel ranking ha acquisito proporzioni inimmaginabili. Quasi doppiato Alcaraz, quello che “l’esercito delle dodici scimmie” indicava quale vero numero 1, perché vincitore del Roland e di Wimbledon. Jannik Sinner non si è fatto scalfire da questo tam tam mediatico di chi criticava addirittura i criteri di punteggio, che sono lì dal 1972 e nessuno si era mai sognato di contestare. Ha superato, con l’inevitabile sofferenza di chi teme un’ingiusta punizione, il pasticciaccio del Clostebol, ha ingoiato le calunnie e la cattiveria di colleghi, addetti ai lavori ed esperti d’occasione. Lo ha fatto con la semplicità che gli appartiene, con la forza d’animo e la fermezza di quelle cime dolomitiche che dormono nel suo cuore dal giorno che partì, per vedere se fosse possibile conquistare il mondo.
Ora è il numero 1 indiscusso, ha vinto 2 major, 2 mille e 2 “500” nel solo 2024, ha vinto 55 partite su 60. Nel 2023 aveva portato l’Italia alla conquista della Davis e giocato la finale alle Finals di Torino. Quella volta vinse Nole, ma da allora non ne ha persa più una, Jannik Sinner, il ragazzo dal volto pulito, che quando gioca una finale diventa implacabile.
Affascina questa sua capacità di confinare l’aggressività al campo di gioco, o meglio ancora ai colpi, perché tra un punto e l’altro la sua gentilezza, il suo esser rispettoso degli altri riaffiora: mai uno sberleffo, mai un gesto di sfida arrogante. Sinner è il ragazzo della porta accanto, è il figlio che tutti vorrebbero avere. Jannik quando finisce di giocare torna il ragazzo di sempre, non si sente il padrone del mondo, ma solo un 23enne con voglia di divertirsi, di appagare le curiosità, di esplorare i confini di quel che c’è fuori dal tennis. E’ consapevole che finché sarà un professionista dovrà continuare ad essere quasi maniacale nel lavoro e nell’applicazione, un po’ come Pietro Mennea, la freccia del Sud, che sfidava i velocisti Usa con un fisico “normale” e con una volontà fuori dal comune. Mennea, un ragazzo del Sud, Sinner, un ragazzo del Nord, due fenomeni del nostro sport: la serietà e l’abnegazione al servizio di un sogno. Realizzato per entrambi. Jannik Sinner ha davanti a sé una carriera lunghissima e avrà l’incomodo ruolo dell’uomo da battere, del tennista di riferimento. Dividerà con Alcaraz, l’altro giovane fenomeno della racchetta, onori, gloria e successi. Se le indicazioni di quest’anno verranno confortate dalle prossime stagioni è possibile, anzi probabile, che rispetto al rivale spagnolo Sinner possa avere dalla sua la continuità. E perciò quel numero uno, che piaccia o meno alle dodici scimmie, resterà a lungo sul suo petto, a contrassegnare il migliore, il più bravo, il più meritevole. Ieri mezza Italia lo ha seguito, e tra i milioni di telespettatori c’erano soggetti che del tennis ignoravano le dinamiche, un po’ come avvenne ai tempi di Alberto Tomba per lo sci. Jannik non è spaventato da cotanta responsabilità: somiglia al principe Myskin, come lui è uno spirito libero e un animo puro. Quello diceva: “la bellezza salverà il mondo”. Jannik coltiva la bellezza in ogni gesto: colpisce la pallina con destrezza e sembra che dipinga il quadro della sua vita; sembra quasi di vederlo, poco più che bambino, a Bordighera, a cimentarsi in quella disciplina che lo avrebbe portato sul tetto del mondo. New York lo ha incoronato re e gli applausi del pubblico locale, che per ovvi motivi sperava in un successo di Fritz, sono il riconoscimento più bello. Uno come Jannik Sinner è di tutti, ma noi italiani ne reclamiamo con un pizzico di orgoglio la paternità.
Jannik Sinner con il suo tennis ci ha detto tante cose, ma la prima e la più importante è che a volte le favole esistono.