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Europa League: la finale più lunga, la delusione più grande. A Budapest il Siviglia fa festa dal dischetto

Roberto Mercaldo
A mezzanotte Roma piomba in un silenzio assordante: i giallorossi si sono fermati a un centimetro dal traguardo
Giugno 1, 2023
Foto: Calciomercato.com

La partita più lunga, la delusione più grande. Con i suoi 146 minuti Roma-Siviglia, finale di Europa League, ha stabilito il record di partita più lunga della storia.
I recuperi corposi, non tutti giustificati in simili proporzioni, sono stati solo una delle tante imprecisioni dell’arbitro Taylor, la cui direzione di gara ha scontentato non poco i romanisti.
Mancano un rigore netto e un secondo giallo a Lamela, che poi è stato uno dei rigoristi.
Al netto del rigore non concesso in semifinale a Rabiot, il Siviglia può ben dire che una certa benevolenza dei direttori di gara abbia accompagnato il suo settimo trionfo in Europa League.

La Roma mastica amaro pensando all’occasione buttata via, al suo popolo pronto a far festa e costretto a ripiegar vessilli, a piangere di rabbia e di sportivo dolore.
Doveva essere festa sulle sponde del Danubio. Doveva essere gioia, genuina e debordante, che volasse più in alto del cielo e delle ombre, che vestisse i tetti di Budapest e il Fontanone. E poi i balconi, le piazze, i vicoli sonnecchiosi e vetusti della Città Eterna.

E “la Joya”, all’anagrafe Paulo Dybala, aveva fatto il possibile per scatenare la festa. Impiegato sorprendentemente dal fischio iniziale, aveva scosso il match con un gol dei suoi: controllo perfetto e sinistro chirurgico. Roma in Paradiso. Un’altra azione straordinaria del numero 21 giallorosso aveva poi propiziato una colossale occasione, ma Pellegrini ha perso l’attimo per calciare e rendere corposo il vantaggio romanista.

SECONDO TEMPO DI SOFFERENZA

Dopo i 52 minuti del primo tempo le squadre sono tornate in campo con spirito diverso rispetto a quello esibito nella precedente frazione.
Di colpo sparagnina la Roma, di colpo arrembante il Siviglia. Non poteva e non doveva essere così, ma così era. E allora l’autogol di Mancini non ha sorpreso più di tanto, perché la frequentazione, anche disordinata, dell’area avversaria, può generare qualche fortuito ma determinante episodio.
Scossa dal pari, la Roma di Mourinho si è ridestata, e come un bimbo schiaffeggiato ingiustamente ha cercato vendetta. Non l’ha trovata per le prodezze di Bounou su Abraham e Belotti e per la svista colossale di Taylor e della sala Var sul “mani” di Fernando.
Poi, una lunga, infinita battaglia, fatta di contrasti rudi, di palle spazzate via senza fronzoli, di idee morte sul nascere e di voglie represse.

Aleggia sulla Puskas Arena lo spettro dei calci di rigore. Il calcio italiano non lo ricorda con troppo piacere, sebbene abbia goduto di un paio di rilevanti eccezioni. I tifosi romanisti hanno negli occhi la notte dell’Olimpico contro il Liverpool, sospesa tra amaro ricordo e cattivo presagio.
Si va ai rigori, inevitabilmente. La Roma fa la conta e scopre che Dybala, Abraham e Pellegrini non ci sono più.
Due difensori, Mancini e Ibanez, si prendono la responsabilità. Sbagliano, il primo tirando forte e centrale, il secondo calciando sul palo. La sola parata di Rui Patricio è poi cancellata perché il rigore va ripetuto.

Le luci, la premiazione, i pianti, i rimorsi. C’è un copione più triste di una sconfitta ai rigori? Chiedetelo ai calciodimensionati e sentirete un perentorio no.
Gli andalusi in Paradiso, la Roma dietro la lavagna, ripensando a quel che poteva essere ma il fato non ha voluto che fosse.
Tanta malasorte, qualche demerito e un vagone di rabbia sono il bagaglio con cui si riparte da Budapest. Però si riparte perché il calcio rigenera ansie speranze e dolori.
Domani è un altro giorno.

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