A volte lo sport somiglia a un romanzo, perché si diverte a intrecciare storie che apparentemente hanno poco in comune ma poi trovano un filo sottile che le unisce.
Sono quei romanzi che alternano capitoli in tondo ad altri in corsivo, due facce di una medaglia, due modi di essere che traggono dalle diversità radici comuni e raccontano quella che con ampia approssimazione sogliamo chiamar vita. Il romanzo scritto dalla prima domenica di aprile ha due protagonisti. Uno si chiama Carlos, è spagnolo, ha 18 anni e mezzo e ha in mano una racchetta. L’altro si chiama Tadej, di anni ne ha quasi 22, e dalle prime ore del mattino è in bicicletta, in attesa del via ufficiale. Carlos Alcaraz ha un appuntamento con la gloria: sui campi in cemento di Miami sfiderà in finale il norvegese Ruud, numero 7 del mondo, per conquistare il primo “mille” della sua carriera. Tadej Pogacar inforca la bici e guarda all’orizzonte: dovrà correre per oltre 7 ore e andar su e giù per i “muri” delle Ardenne, per onorare il pronostico, che lo vorrebbe vincitore del Giro delle Fiandre, la prima grande classica del Nord. Mentre Carlos fa colazione, Tadej è già sporco di fango, perché le strade fiamminghe recano vistose tracce della pioggia che nei giorni precedenti ha sferzato le case, l’erba, i pensieri. Carlos sa che non può sbagliare, perché già son pronti gli ipercritici a sostenere che il secondo sia solo il primo dei battuti. Ascolta i consigli di Ferrero, il suo allenatore, che è stato numero uno del mondo e conosce a menadito le dinamiche di uno sport che sa essere crudele.

Intanto Tadej Pogacar si è già messo alle spalle i primi 100 chilometri di corsa, quelli da correre con la massima attenzione e con i giri del motore ridotti al minimo, perché le energie saranno preziose più in là, dove i tifosi sono già assiepati al ciglio della strada, pronti a guardare quelle frecce colorate che passeranno a 50 all’ora, disegnando un arcobaleno. Dalle parti di Tadej si muove con pedalata rotonda Mathieu Van der Poel, nipote di Poulidor, altro predestinato, che il Fiandre l’ha già vinto nel 2020. E gli è piaciuto così tanto che ha voglia di riprovarci. Passsano i chilometri, scanditi dai terribili muri, ascese brevi ma con pendenze spaventose. Uno dopo l’altro perdono le ruote tutti e restano solo loro, i due più attesi: Tadej contro Mathieu, l’erede al trono e l’imperatore. Il tatticismo è estremo, si arriva quasi a un “surplace” da pistard, da dietro rientrano i due più vicini inseguitori e Pogacar scopre che le sue energie non sono sufficienti ad evitare il trionfo dell’altro. Il suo frenetico pigiare sui pedali vale solo il quarto posto. L’appuntamento con la gloria è rinviato e il fango delle Ardenne dal suo viso scende fin dentro l’anima.
Alcaraz ha iniziato male: subito un break incassato, nemmeno il tempo di ragionare e Ruud, il norvegese d’acciaio è già sul 3/0. Lo spagnolo di Murcia ha un carattere forgiato nella roccia, energie illimitate e un tennis esplosivo e fantasioso. Carlos non vuole che la sua giornata si chiuda come quella di Tadej. E allora colpisce quella pallina come ispirato dalle forze della natura, come se rispondesse a un comando ancestrale. Il primo set lo vince 7/5, nel secondo vola 3/0 e rintuzza ogni orgoglioso tentativo di rimonta. Carlos Alcaraz si è preso il primo di chissà quanti trofei, mentre Tadej Pogacar, che ha già vinto il Tour a 20 anni, oggi guarda sconsolato il soffitto, pensando alla perfidia di questa prima domenica di aprile. Intanto a Lugano un 18enne italiano, di nome Luca Nardi, conquista il secondo Challenger della sua carriera.
Ha la stessa età di Alcaraz, ma è solo numero 240 del mondo. Però cresce, e con lui crescono i suoi sogni. Pensa che un giorno lo sfiderà, quel coetaneo già ricco di gloria. E immagina un finale che nessuno al mondo oggi oserebbe immaginare. E d’incanto scende la notte su Carlos, Tadej, Luca. Scende la notte su questa prima domenica di aprile.