Una telefonata allunga la vita. Anche del Governo Draghi e soprattutto se arriva da una Cancelleria europea oppure dalla Segreteria di Stato degli Usa. E’ accaduto ieri, accadrà almeno dieci volte al giorno fino a mercoledì, quando il premier dimissionario si presenterà alle Camere. Eppure spazi per una ricomposizione ce ne sono pochi, perfino per uno cauto come il direttore del Corsera Luciano Fontana.
In primis Mario Draghi: più chiaramente non poteva dirlo, il collante dell’unità nazionale si è sfaldato. Quando fu chiamato da Mattarella a Palazzo Chigi aveva due missioni: la campagna di vaccinazione e il Pnrr. Poi inevitabilmente ha finito per occuparsi di molto altro, ma la situazione è prima sfuggita di mano e poi precipitata.
DI LOTTA E DI GOVERNO NON FUNZIONA
Soprattutto il Movimento Cinque Stelle e la Lega hanno pensato di poter interpretare due parti in commedia: stare al Governo ma cercare sponde e spazi nell’opposizione. Non ha funzionato. I pentastellati hanno perso per strada tantissimi parlamentari, poi è arrivata la scissione di Luigi Di Maio. Nel Carroccio Matteo Salvini si è indebolito, stretto tra Giancarlo Giorgetti e Claudio Borghi. Ma dopo che l’altro ieri sembrava tutto chiaro, iniziano adesso ad affiorare dubbi e calcoli. Il Movimento Cinque Stelle è spaccato (tanto per cambiare) e in diversi guardano a Di Maio. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno ripreso a cimentarsi nelle solite iperboli dialettiche: basta con i Cinque Stelle, ma il Governo potrebbe proseguire senza di loro. Vuol dire andare avanti con numeri più risicati che mai, grazie ai ribelli dei Cinque Stelle. Non sembra una grande prospettiva.
Giorgia Meloni (unica ad avere le idee chiare) ha invitato gli alleati a prepararsi alle elezioni “senza riunioni conviviali”, ma ha già capito che i dietrofront saranno all’ordine del… minuto. Nonostante tutto questo, la prospettiva di tornare alle urne a ottobre rimane la soluzione principale. E’ vero: c’è la guerra in Ucraina, c’è la pandemia, c’è il Pnrr, c’è il tema del caro energia e del lavoro. Ma ci sono ovunque, anche nei Paesi dove si vota. Tipo la Francia, la Germania. Cosa cambierebbe davvero se si votasse a maggio piuttosto che ad ottobre? Sempre la Meloni ha avuto il coraggio di affermare che “un quarto governo senza voto sarebbe scandaloso”.
Dipenderà da Salvini e Berlusconi: senza di loro sarebbe impossibile andare avanti. Con loro si proseguirebbe a braccetto con il Pd, Italia Viva, Leu e i Cinque Stelle sparsi un po’ ovunque: in quel che resta del Movimento ma anche con Luigi Di Maio. Almeno si evitino le ipocrisie. Per quale motivo Lega e Forza Italia preferirebbero andare avanti per qualche mese, assumersi la responsabilità di provvedimenti “lacrime e sangue” che avrebbero effetti sul consenso? Non si riesce a comprendere.
Ma in Italia sembra vietato votare, meglio le ammucchiate indistinte che hanno caratterizzato gli ultimi anni. Mario Draghi, considerando l’orgoglio dell’uomo, potrebbe decidere di proseguire lungo la strada delle dimissioni. Neppure in questo caso però si andrebbe alle urne e basta. Si cercherebbero altre soluzioni: Giuliano Amato, Carlo Cottarelli, magari Pierferdinando Casini.
ZINGARETTI ALLINEATO E COPERTO
Il presidente della Regione Lazio ha detto che il segretario del Pd Enrico Letta sta gestendo benissimo questa fase e deve sentire il sostegno e la solidarietà di tutta la classe dirigente. Vuol dire: provare l’impossibile per andare avanti. Nonostante il rapporto con i Cinque Stelle sia irrimediabilmente compromesso, nonostante Giuseppe Conte non rappresenti da tempo un interlocutore affidabile per lo stesso Letta e per Dario Franceschini. Ma è l’arte del tirare a campare. Sempre e comunque. Anche nel Lazio, dove in realtà nessuna problematica vera viene risolta. L’ultimatum alle Province per i rifiuti sta per scadere (20 luglio). Ma non succederà nulla. La sospensione del decreto di perimetrazione della Valle del Sacco non c’è, nonostante i tentativi di far passare una lettera di buoni propositi come l’accordo di Yalta. Si potrebbe proseguire. Nicola Zingaretti sta giocando partite più semplici e concrete: una sua candidatura blindata al Parlamento e la scelta del successore. In entrambi i casi deciderà Enrico Letta. Perciò la sintonia è totale. Soltanto che il Governatore non è uno qualunque: in questa legislatura è stato segretario del Pd, ha sdoganato il progetto della Piazza Grande prima che del Campo largo, ha rappresentato l’avanguardia del patto d’acciaio con i Cinque Stelle. Mai un’autocritica su un fallimento politico che ha finito con il travolgere il campo progressista.
IL TIMBRO DI MASTRANGELI
Il sindaco di Frosinone ha presentato la giunta, dando subito l’impressione di un clima disteso e di una forte connotazione politica, anche rispetto al passato. Con un centrodestra che dal capoluogo vuole partire per le successive sfide da vincere. Lunedì c’è l’elezione di Massimiliano Tagliaferri alla presidenza del consiglio comunale. Un altro tassello fondamentale se si considera il ruolo strategico che l’ex assessore all’Ambiente ha avuto nella costruzione della coalizione. Un risultato pieno rappresenterebbe un ulteriore slancio. Il Comune di Frosinone viene da dieci anni di buona amministrazione. Adesso c’è un elemento in più: la politica. Nel senso che il centrodestra ha l’orgoglio di dire e di dimostrare che è nelle condizioni di guidare al meglio la città. Una centralità che può risultare fondamentale tra pochi mesi, alle provinciali per indicare il presidente. Ma anche se dovessero esserci elezioni politiche anticipate. Non abbiamo memoria di mobilitazioni degli amministratori comunali per supportare i candidati alla Camera e al Senato. Stavolta può accadere in tanti Comuni. Sarebbe normale. Il centrosinistra evidenzia sempre le potenzialità di una “catena virtuosa”: Governo, Regione, Provincia, Comuni. Ora può farlo, vincendo gli antichi pudori, anche il centrodestra. Iniziando dal capoluogo.