Sei mesi per scongiurare il licenziamento collettivo di 163 persone e la scomparsa di uno stabilimento che ricicla tutta la carta derivante dalla raccolta differenziata dell’area del cassinate e del sud della provincia di Frosinone. La vicenda della Reno de Medici è indicativa del livello di disinteresse e distanza dal mondo del lavoro che caratterizza la pubblica amministrazione in genere.
Per comprendere come si sia arrivati all’esasperazione dei dirigenti RdM ed alla impossibilità di reggere economicamente oltre i mesi di blocco della produzione accumulati dallo scorso anno ed anche nelle prime settimane del 2024, bisogna partire dalla costituzione del Cosilam avvenuta il 20 novembre 2003 con il decreto n. 435 del Presidente della Giunta Regionale del Lazio, pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione il 20 dicembre 2003. Ebbene la principale realizzazione dell’ente, con un investimento 5 milioni di euro, è consistita nel costruire il depuratore industriale consortile a cui la Reno de Medici venne subito tenuta a conferire scarti di lavorazione, ovviamente dietro pagamenti rilevanti per la stessa esistenza del Cosilam. Una somma di denaro che rappresentava e ha rappresentato fino ad oggi, come i reflui smaltiti dall’impianto, circa il 90% dell’attività d’impianto.
L’inefficienza del depuratore, con i problemi gestionali evidenziati dai cittadini residenti e dalle indagini della Procura della Repubblica di Cassino, è tristemente nota e si è prolungata negli anni. Le responsabilità sono tutte della politica che dapprima gestisce l’impianto direttamente col Cosilam, quindi lo gestisce attraverso la società in house AeA, detenuta al 100% dai consorzi industriali e quindi dalla stessa politica. Il problema non si risolve e nel frattempo il Cosilam si scioglie e dà spazio al Consorzio Industriale unico del Lazio che appartiene interamente alla Regione Lazio, la società AeA invece è detenuta tutta dal nuovo Consorzio industriale unico ma la sostanza non cambia. Insomma chi tiene le file della giostra della depurazione industriale – con posti e consulenze pagate dalle aziende – è sempre e soltanto la politica. Anche perché, almeno in teoria, è meglio che una struttura sociale come un depuratore industriale, a cui tutte le aziende sono obbligate a collegarsi, venga controllata dal pubblico.
Cosa accade nel frattempo? Che il depuratore inquina, la Reno de Medici finisce incriminata per l’alto livello di contaminazione dei fanghi che conferisce, nonostante paghi il dovuto ed abbia ottenuto le deroghe di legge.
Il Consorzio, e la Regione quindi, sono costretti dalla magistratura a mettere a norma l’impianto ed a mitigare le emissioni nell’ambiente circostante. La Reno de Medici, da parte sua, da un anno e mezzo a questa parte ha eseguito lavori di adeguamento ai suoi impianti di pretrattamento investendo circa 4 milioni di euro.
Nel frattempo erano in corso colloqui tra l’azienda e la Regione Lazio – che deve concedere l’Aia – per fare in modo che l’azienda potesse proseguire la sua attività e che le fosse concessa l’autorizzazione includendo un periodo di tempo per un graduale ritorno alla normalità nei livelli inquinanti dei reflui e nello stoccaggio dei fanghi nel frattempo accumulati.
Insomma la Regione – che è proprietaria del depuratore consortile che ha inquinato per anni aria, suoli e rete fluviale -, usa adesso il rigore massimo verso l’azienda, divenuta a questo punto il centro dell’intera vicenda, e non rilascia il famoso nulla osta ambientale.
Nel frattempo interviene la Procura con sequestri, dissequestri ed una perizia del suo tecnico incaricato che finisce con l’imporre una condizione che, di fatto, sconvolgerebbe una pratica in auge in tutte le cartiere d’Italia caricando le aziende di oneri aggiuntivi insostenibili. Vediamo di cosa parliamo.
La RdM ha fatto già la sua parte per poter scaricare reflui nel rispetto dei limiti di tabella, come previsto dalla legge. Il problema rimasto in piedi riguarda lo smaltimento dei residui di produzione che vengono classificati in fanghi primari e secondari. Questi ultimi vanno smaltiti fuori dall’azienda e la pratica è assodata. Quanto ai primi, invece, tutte le cartiere d’Italia procedono alla reimmissione nei processi produttivi, rappresentando bene la “circolarità” di cui tutti si riempiono la bocca.
Ora il management della RdM non comprende perché mai il perito in questione faccia obbligo all’azienda di smaltire all’esterno anche i fanghi primari. Cosa che, a cascata, imporrebbe che il riciclo di questo materiale venga bloccato in tutte le cartiere d’Italia. Anche qui la Regione Lazio potrebbe e dovrebbe autorizzare il riciclo dei fanghi primari che vengono solitamente reimmessi nel macchinario che macina la polpa e produce cellulosa. Un problema burocratico, insomma, almeno apparentemente non insormontabile, considerato che non inciderebbe sulle emissioni ed anzi andrebbe nella direzione del riciclo dei materiali.
Del resto, se la Reno de Medici dovesse accettare la prescrizione del perito della Procura dovrebbe smaltire all’esterno circa 36mila tonnellate di fanghi, con un aggravio di spese di 2 milioni di euro ed un impatto sulle strade di circa mille tir all’anno.
Cifre che danno la dimensione della pesantezza delle eventuali conseguenze.
Così la Reno de Medici, che stava da anni penando per il malfunzionamento del depuratore Cosilam, per le interruzioni della lavorazione, si trova a combattere contro un fermo produttivo causato dalla burocrazia regionale e gli amministratori non ce la fanno più a reggere oltre il peso di uno stabilimento bloccato, pur avendo gli stessi sistemi di depurazione degli altri siti italiani simili.
Nella giornata di ieri l’azienda ha quindi avviato la procedura di cessazione dell’attività, sulla base delle nuove disposizioni che vietano a chi ha più di 50 dipendenti il licenziamento dei lavoratori prima di 180 giorni; termine che peraltro coincide con la data in cui – il 19 maggio 2024 – cesseranno gli ammortizzatori sociali utilizzabili.
Cgil, Cisl, Uil e Ugl ieri sera hanno fatto partire dalle loro segreterie nazionali una richiesta di incontro urgente indirizzata alla Regione Lazio e al ministero dello Sviluppo Economico. Mentre venerdì prossimo si terrà un corteo a Cassino al quale sono state invitate le autorità e le istituzioni del territorio.
Il problema riguarda non solo i 163 dipendenti diretti ma almeno altri 140 dell’indotto. Per quest’ultimi già a marzo scadranno gli ammortizzatori sociali e, quindi, per quella data potrebbero scattare i primi licenziamenti.
Oltretutto se la Reno de Medici dovesse chiudere, il blocco del riciclo della carta del comprensorio si trasformerebbe in una vera e propria bomba ecologica.
«Non posso credere e pensare – spiega uno dei sindacalisti impegnati nella vertenza – che, con tutto quello che stiamo mettendo in campo come organizzazioni dei lavoratori, la politica e le istituzioni resteranno ingessate. Sono convinto che la risolveremo ma bisogna creare le condizioni che fino ad oggi sono mancate per consentire a Reno de Medici di produrre in tranquillità e nel rispetto dell’ambiente, come la stessa azienda ha dimostrato coi fatti di voler fare».