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Per i romani antichi la memoria abitava nell’orecchio

Alberto Fraja
Di ciò ci offre ampia prova l’interessantissimo saggio “Roma, città della parola” (Einaudi) scritto da Maurizio Bettini.
Giugno 17, 2022

Nella Roma antica esisteva una categoria di individui, per lo più schiavi o liberti, cui era affidata una funzione invero abbastanza originale. Erano i nomenclatores (ricordatori) e il loro compito era quello di rammentare al proprio padrone i nomi delle persone da salutare per strada. 
Il ruolo di questa sorta di memorizzatori anagrafici cresceva d’importanza in tempo di elezioni, quando al candidato era indispensabile manifestare la massima familiarità e la massima deferenza verso persone note ma, soprattutto, sconosciute. Accanto ai nomenclatores c’erano i monitores la cui consegna era quella di stare al lato dell’oratore, nel foro, per suggerirgli cosa dire e cosa non dire. Insomma, in un’epoca in cui i sussidi di tipo digitale o visuale non erano stati ancora inventati, e in compenso di schiavi ce n’era in abbondanza, certi uffici venivano svolti attraverso strumenti diciamo così di natura umana.
Occorre qui sottolineare che l’orecchio della memoria ovvero la memoria nell’orecchio, costituisce un simbolo capace di farci riflettere immediatamente su uno degli aspetti tra i più determinanti nella formazione della cultura romana. Ossia il suo legame con l’oralità e con la “parola parlata”. Di ciò ci offre ampia prova l’interessantissimo saggio “Roma, città della parola” (Einaudi) scritto da Maurizio Bettini.
Se i Romani collocano la memoria nell’orecchio è perché sono ancora consapevoli del fatto che il corpus delle conoscenze che albergano in ciascun individuo si forma per via “aurale”, come appunto si dice. Le cose antiche stanno nell’orecchio», recita un proverbio ghanese che, a dispetto dell’enorme distanza geografica e temporale, potrebbe valere anche per Roma, perché esprime la stessa sostanza culturale. Facendo dell’orecchio il contenitore dei ricordi, anche i Romani mostrano di sapere che il patrimonio della memoria e della conoscenza (quello che fa essere se stessi non solo gli individui, ma anche i gruppi sociali) costituisce il sedimento lasciato in primo luogo da dialoghi, monologhi, racconti, canti, formule, pronunciamenti solenni, e non da una filza di segni grafici tracciati su una pietra, una tavoletta o un foglio: dove non è più questione di orecchie, ma di occhi. 
E a proposito di orecchi occorre tornare per un attimo al nostro nomenclator. Si sappia che costui, sussurrando il nome di qualcuno nel versatoio di qualcun altro, nella convinzione popolare romano antica, agiva come un salsicciaio. Le orecchie del destinatario costituivano una sorta di contenitore delle informazioni che lo schiavo infarciva di nomi da ricordare. L’azione di imbottire il padiglione auricolare di nomi e notizie aveva direttamente a che fare con l’intento di agire sulla memoria del destinatario: colui che stiva di nomi le orecchie altrui vuole metterlo in grado di simulare una memoria che non ha, ovvero di arricchire, ampliare la sua memoria, come se si trattasse (diremmo noi oggi) di inserire nuovi dati nel disco di un computer. Secondo Plinio il Vecchio, la memoria era collocata per l’appunto nel lobo dell’orecchio, la parte del corpo umano che, di questa fondamentale facoltà spirituale, costituiva la sede anatomica. Tant’è vero che, quando si voleva “far ricordare” a qualcuno un impegno preso, gli si toccava proprio il lobo dell’orecchio, come a dire: «ricordatene, eh!».
Con il passare dei secoli la memoria delle persone e delle comunità sarà sempre più dominata dalle parole scritte, da quella messe di caratteri alfabetici che progressivamente si impadroniranno di ogni genere di conoscenza o rappresentazione culturale: dalla religione, non a caso identificata proprio con un Libro, alle sillogi delle leggi; dai libri dei poeti alle registrazioni degli accadimenti storici; dalle raccolte di epistole agli umili appunti relativi alle cose da fare; e così di seguito. In una società tanto massicciamente dominata dalla scrittura (che sempre più lo sarà con l’avvento della stampa e infine del digitale) inevitabilmente la memoria passerà sempre meno attraverso la parola pronunciata e sempre più attraverso quella scritta. Insomma, sempre più attraverso la vista e sempre meno attraverso l’udito. Oggi nessuno si sognerebbe più di credere, o di affermare, che la memoria risiede nel lobo dell’orecchio.
Beninteso. Anche a Roma l’incidenza esercitata dalla litteratura, come i quiriti chiamavano la scrittura, è stata grande, non c’è dubbio, ma questo non può cancellare l’altra faccia della medaglia: ossia il fatto che alcune fra le forme costitutive della cultura romana si sono concretizzate in un ambito di carattere orale e hanno continuato nel loro cammino attraverso il medium della parola parlata. Per lungo tempo a Roma “conoscere” fu sinonimo di “ascoltare”.

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