Stavolta nella coda non c’è stato il veleno, bensì un oro ai limiti dell’imprevedibile.
Niccolò Martinenghi è da qualche anno una delle nostre stelle del nuoto, ma in questa finale a cinque cerchi almeno 4 suoi contendenti sembravano presentare credenziali più autorevoli. Non già per classe o blasone, visto che il nostro gigante della rana era già stato sul tetto del mondo a Budapest, bensì per verdetti cronometrici stagionali. Il fuoriclasse Adam Peaty, l’olandesone Kamminga, il cinese Qin Haiyang e l’americano Fink sembravano in grado di nuotare più veloce.
Niccolò non si è scoraggiato e, arpionata la finale senza particolari patemi, è partito dai blocchi con il convincimento di sempre: vincere.
La piscina parigina è di ardua interpretazione per tutti, perché dopo due giornate di gare non è ancora caduto un solo record del mondo e questo ai Giochi è un riscontro davvero atipico. Dopo 50 metri son tutti lì, nemmeno Peaty, uno da -58” reiterato, riesce a dare lo strappo decisivo. E a pochi metri dal traguardo sono ancora tutti in pochi centimetri. E chi tocca per primo la piastra? Il nostro varesino d’oro, con un guizzo maestoso dalle onde della settima corsia. Due centesimi su Peaty e Fink, secondi a pari merito, 8 sul tedesco Imoudu, fuori dal podio in modo davvero beffardo. Kamminga e Qin sono sesto e settimo. Il tempo di Niccolò è peggiore del suo stagionale ed è un +59, che di regola nemmeno ti manda su un podio mondiale o olimpico, ma l’impianto parigino non è amico dei supercrono e poi ai Giochi conta solo toccare prima degli altri. Per i record ci sarà tempo e modo. Intanto a soli 25 anni l’asso lombardo ha già vinto tutto, come solo pochissimi grandi hanno saputo fare nella storia del nuoto azzurro.
“Visto” per la finale timbrato nei suoi 100 dorso anche da Thomas Ceccon, primatista mondiale della specialità, dopo le solite batterie pigre del mattino. Dodicesimo crono al primo turno, successo nella sua semi e secondo tempo complessivo alla sera. E oggi proverà a scendere sotto i 52 per prendersi l’oro olimpico. In finale nei 100 rana anche Benedetta Pilato, col sesto tempo. Il podio sembra davvero impresa ardua, ma Benny è un’agonista esagerata e non ci stupiremmo di vederla salire su uno di quei gloriosi gradini. Nei 400 misti del fenomeno Marchand, buon quinto Razzetti, che ha pagato la frazione a dorso ed è andato non distante dal terzo posto.
ESALTANTI NEL TIRO, DELUSI E BEFFATI NELLA SCHERMA
Ci si attendevano medaglie dalla scherma, sono invece arrivati allori dal tiro a segno.
Nella prima gara della seconda giornata olimpica, specialità pistola dai dieci metri, due italiani sono stati grandissimi protagonisti. Federico Nilo Maldini e Paolo Monna hanno trovato grande ispirazione nella finale, dopo una qualificazione abbastanza sofferta.
Solo l’implacabile cinese Yu Xie è riuscito ad essere più freddo e preciso dei nostri due tiratori, guadagnandosi un meritato oro. Il fattore M ha regalato due medaglie alla pattuglia tricolore: Maldini e Monna sul podio hanno mostrato sorrisi e un pizzico di commozione. Sanno che solo fra quattro anni potranno ritrovare una platea immensa, perché queste discipline poi tornano ad appannaggio di addetti ai lavori e di un pubblico più ristretto. Ma sacrifici, lavoro, rinunce son nulla in confronto alla gioia di una medaglia olimpica.
Ci si attendevano almeno due medaglie, forse anche di più, dalla scherma. I tornei individuali di spada maschile e fioretto femminile solleticavano appetiti legittimi, viste le posizioni dei nostri nel ranking mondiale delle due specialità. È stato invece un tracollo, con sconfitte di una sola stoccata, spesso condite da decisioni arbitrali quantomeno dubbie.
Due eliminazioni ai quarti, entrambe col punteggio di 15-14, per la portabandiera Arianna Errigo contro la statunitense Scruggs e per la giovane Martina Favaretto contro la canadese Harvey, hanno assestato un duro colpo alle speranze azzurre, riposte sulla sola Volpi, capace di accedere tra le magnifiche quattro.
In semifinale contro Kiefer però, Alice non è stata in grado di reggere il passo della scatenata americana, poi vincitrice dell’oro. E nella finalina una partenza ad handicap si è rivelata decisiva ed ha relegato Volpi al quarto posto, come a Tokyo nel 2021.
Con le pive nel sacco anche i maschi della spada, arrivati indenni fino agli ottavi, fatali per Di Veroli e Santarelli. Il solo capace di passare indenne le forche caudine, sia pure alla stoccata di spareggio, è stato Vismara, ma nei quarti la sua eccellente partenza non è bastata a contenere il ritorno dello scatenato ungherese Andrasfi.
Negli sport di squadra bene le azzurre del volley, trascinate da Paola Egonu contro una scorbutica Repubblica Dominicana e benissimo i ragazzi del “settebello”, che hanno travolto gli Stati Uniti.
Sconfitta amara per Odette Giuffrida nei judo. Arrivata tra le magnifiche quattro, la nostra plurimedagliata olimpica si è vista affibbiare tre cartellini tutt’altro che nitidi in semifinale ed ha poi patito un’altra discutibilissima decisione nella sfida per il bronzo, restando fuori dal podio.



IL DRAMMA DI UTA ABE, BATTUTA E INCONSOLABILE
C’è una storia da raccontare in questo secondo giorno olimpico e questa volta non riguarda gli azzurri.
Protagonista, suo malgrado, la judoka giapponese Uta Abe, campionessa olimpica uscente nella categoria al limite dei 52 kg e imbattuta da cinque anni.
Uta in Giappone è una sorta di eroina, una donna simbolo. A questi Giochi si presentava dopo una stagione non particolarmente intensa, tanto che a dispetto della sua invulnerabilità non le era stata assegnata la testa di serie (paradossale, trattandosi di un’atleta titolata e imbattuta da tempo).
Così le è toccato affrontare a inizio competizione l’uzbeka Diyora Kekdyvorova, numero uno del ranking mondiale.
Uta Abe, per nulla intimorita, ha iniziato col solito piglio e si è portata in vantaggio grazie a un waza-ari. A 50” dalla fine è accaduto però l’imponderabile, perché l’uzbeka, viso grazioso ma un po’ truce, fanciulla che la vedi e pensi possa masticare il mondo per la determinazione che ha nello sguardo, ebbene l’uzbeka mette a segno l’ippon che mai ti aspetti.
Uta ci mette un po’ a realizzare che stavolta non ha vinto. Barcolla per il saluto all’avversaria, fa fatica ad uscire dal tatami e sembra non possedere più capacità deambulatorie. È una disperazione che ricorda il Maracanà offeso da Ghiggia ai mondiali del 50. Piange, Abe, piange di rabbia e di frustrazione, piange tra le braccia del suo tecnico chiedendosi il perché.
È l’altra faccia dello sport, quella crudele. La fatal proiezione dell’uzbeka scende nel cuore di Uta come un fiocco di neve, e allora fa freddo anche in un luglio torrido. Il pubblico comprende il dramma, incoraggia, scandisce il nome. Ma Uta Abe è lontana, in un mare di disperazione. E non c’è parola che possa consolarla, non c’è tepore che possa scaldare il suo fiocco di neve.
L’altra è già in doccia, pronta a prendersi l’oro con la forza delle sue braccia, pronta a masticare il mondo. Due ragazze e una storia di sport, di un giorno dei tanti, a Parigi.