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L’Italia? Una Repubblica fondata sulle parolacce

Alberto Fraja
Pietro Tifone offre ghiotti e dotti spunti per esaminare la genesi, la persistenza e l’evoluzione delle parolacce nella lingua italiana dal Medioevo fino ai giorni nostri.
Giugno 21, 2022
Pietro Trifone

C’erano una volta i cartelli con su scritto: “La persona civile non sputa per terra e non bestemmia”. Erano gli anni del Puzzone e ia raccomandazione a non scaracchiare come un lama con la bronchite aveva un suo perché trattandosi di materiale di propaganda antitubercolare. Per risolvere la Tbc bastarono, grazie a Dio, gli antibiotici. Per arginare la maleducazione di chi lancia moccoli come piovesse non sono stati sufficienti decenni di manrovesci paterni e scapaccioni preteschi. Viviamo nell’era del “non c’è più religione”, un momento storico in cui devono starci le parolacce. Stare, nel senso che devono vivere per sempre e proliferare nel tempo. E più ce ne sono e più il discorso fila. Sembra strano, eppure la cultura che evolve, ci sta portando verso questo altro traguardo dell’Umanità: dare senso compiuto ai discorsi, rafforzandoli con parole a schema libero. Che non sono quelle dei cruciverba. A proposito di turpiloquio, ci sarebbe questo saggio dal titolo “Brutte, sporche e cattive. Le parolacce nella lingua italiana” (Carrocci, 132 pagine, 13 euro) in cui l’autore, il linguista Pietro Tifone offre ghiotti e dotti spunti per esaminare la genesi, la persistenza e l’evoluzione delle parolacce nella lingua italiana dal Medioevo fino ai giorni nostri. L’autore parte dalla dimensione etimologica delle male parole e, nel paragrafo “L’irriverente sacralità del blasfemo”, ci spiega come l’origine di lemmi come bestemmiare e bestemmia (“grecismi già accolti nel latino ecclesiastico – blasphemareblasphemia – e da qui trasmessi alle lingue romanze”scrive) sia da ricondurre al verbo biastemmiare con il nome bestia. Questa evoluzione «è stata favorita in modo determinante da un istintivo collegamento che ha portato a interpretare la parola in questione come folle imprecazione contro la divinità, che degrada l’uomo al livello di una bestia». In effetti come lo definireste voi uno che sacramenta ogni due per tre? Il linguista cita altre fonti letterarie. Per esempio, sul fronte fiorentino, Carlo Collodi e altri, come testimoni della grande e persistente «diffusione della bestemmia» fino a un recente passato, praticata in tutta Italia «dovunque e per qualsiasi motivo, dal più grave al più futile… perfino in mancanza di qualsiasi problema, a titolo di semplice intercalare desemantizzzato». E tuttavia, tranquillizza l’autore, in Italia l’abitudine di smadonnare sembrerebbe in declino: in altri termini, si bestemmia sempre meno. Per ragioni di secolarizzazione. Se non si crede più in Dio o nei santi che motivo c’è di insultarli? La decrescita del moccolo certamente fa piacere alla stragrande maggioranza delle persone, a prescindere dal tasso di religiosità. Allo stesso tempo, ovviamente, non frena la campagna della Chiesa cattolica per arginare una casistica che ritiene ancora assai diffusa, nonostante il secondo comandamento. Ma se l’abitudine di tirar giù santi sembrerebbe perdere sempre più d’intensità, altrettanto non si può dire delle parolacce che al contrario pare conoscano un periodo di straordinaria fioritura. Detto altrimenti, il calo del linguaggio blasfemo segnalato dal linguista non è stato accompagnato dalla flessione del tasso di volgarità generale.
Scrive Trifone: «Dal GRADIT (il Grande dizionario italiano dell’uso, su cui l’autore si è basato molto nella ricerca, ndr) risulta che le parole volgari attestate per la prima volta nella lingua italiana tra il 1900 e il 2004 sono circa il 60% del totale, contro il 40% di tutti i secoli precedenti»; ciò «può attribuirsi essenzialmente al progressivo affermarsi di modelli di comportamento e di nuove forme di comunicazione. Il fenomeno ha assunto una maggiore evidenza nella seconda metà del secolo scorso e fa registrare uno sviluppo enorme negli ultimi decenni. Appare decisivo, in tale direzione, il successo planetario dei social media». E qui casca l’asino, In effetti se c’è un luogo virtuale in cui il linguaggio da carrettiere ha trovato terreno fertile crescendo a livello quantitativo e “qualitativo”, quello è il Web che come palestra per linguaggio da trivio ha preso il posto delle osterie. Trifone destina una abbondante porzione del suo libro all’analisi del linguaggio da camallo assai diffuso anche in politica. A quest’ultimo proposito citando, per esempio, il celodurismo di Bossi, il gesto delle corna di Berlusconi durante un summit europeo o i Vaffa-Day di grillina memoria, sottolinea che «il turpiloquio è la più immediata e appariscente proiezione simbolica del malessere sociale di cui si nutre il populismo». «Purtroppo», aggiunge Trifone, «questa progressiva tendenza al ribasso del discorso politico risveglia o alimenta impulsi viscerali e istinti aggressivi che fanno regredire la coscienza critica degli elettori… Si tratta di una deriva pericolosa… Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe sentire l’esigenza di essere anche modello e non solo specchio di un paese». Poi ci si lamenta se la gente non va più a votare.

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