Del soggiorno a Roma di James Joyce, di cui in questo 2022 fanno 140 anni dalla nascita, s’avevano sinora solo vaghi ricordi e la targa commemorativa murata sulla prima delle due dimore in cui abitò, al numero 52 di via Frattina. Ad implementare la scorta di informazioni sulla permanenza dello scrittore irlandese nella capitale del regno d’Italia, c’è ora questo libro molto interessante di Enrico Terrinoni: “Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma” (Feltrinelli, 240 pagine, 18 euro).
Joyce rimase nell’Urbe dalla fine del luglio 1906 all’inizio di marzo dell’anno successivo. Vi si era trasferito dall’amata Trieste, in compagnia della moglie Nora e del figlio George, dopo aver trovato un lavoro alla banca Nast, Kolb & Schumacher nel reparto corrispondenza straniera.
Va subito rilevato che l’autore di Gente di Dublino, da un punto di vista psicologico, non si trovò mai a suo completo agio nella Città Eterna. La riteneva circonfusa di un’atmosfera satura di minacce e presenze spettrali.
Un oscuro disagio che lo scrittore avrebbe manifestato anche in un’altra cartolina inviata al fratello Stanislao in cui affermava che «Roma piacerebbe più a te che a me». Terrinoni avanza l’ipotesi che queste scarne righe siano dettate da due umanissime paure. La prima riguarda il lavoro non proprio agognato in banca («Terrorizzato dalla banca…»), la secondo concerne il Tevere: «The Tiber frightens me» (Il Tevere mi fa paura). Dal libro si trae, tuttavia, la certezza che, contrariamente a quanto illustrato finora, la vacanza romana di Joyce proprio una tragedia non deve essere stata. Almeno da un punto di vista della ispirazione letteraria. Che versasse in ambasce o meno, a Roma il genio dublinese scriverà “I morti”, ultimo racconto dell’altro capolavoro che porta la sua firma “Dubliners”. Sempre a Roma riemergono i suoi interessi mistici e il rapporto complicato con la Chiesa cattolica, da cui si è allontanato.
L’Urbe è il luogo magico in cui sgorga nella sua mente l’Ulysses e addirittura, per certi aspetti, anche “Finnegans Wake”. Mica poco. Roma insomma fu per Joyce fonte di intuizioni formidabili. Che l’amasse o no, Joyce è nell’Urbe che tesse il filo sotterraneo e segreto di alcuni dei misteri che più ne caratterizzano il genio letterario. Ed è grazie al libro di Terrinoni che si capiscono gli episodi da cui scaturirono le paure e le ossessioni che attraversano l’Ulisse. In altri termini, per spremere da Roma tutto ciò che gli piacesse, Joyce non aveva bisogno che gli piacesse la città.
La Roma di Joyce è unica, inconcepibile al di fuori del perimetro del suo genio.