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Dentro la vittoria di Sinner: il virtuoso movimento tennistico, il molle adagiarsi del calcio

Roberto Mercaldo
Luglio 14, 2025

Siamo una superpotenza nel tennis, trascinati dal numero uno del mondo.
Se solo dieci anni fa avessimo proposto questo periodo all’attenzione di un accorto lettore, avremmo ottenuto una risata di scherno e un invito a valutare un supporto psicologico per la nostra fantasia galoppante.
Invece è tutto vero. Prima Matteo Berrettini, con le semi nei due major sul cemento e addirittura la finale al “tempio” di Wimbledon, poi, in modo molto più eclatante, Jannik Sinner, indiscusso leader del ranking mondiale da 59 settimane e vincitore di quattro major e di un’edizione delle Finals, hanno riscritto la storia. E non sono soli, perché con loro c’è Musetti, numero 7 del mondo, e poi Cobolli, in prepotente ascesa, e ancora Arnaldi, Darderi, il tenace Sonego, Bellucci e Nardi, tutti saldamente nei primi 100. Dietro, due giovanissimi fenomeni, Federico Cinà e Jacopo Vasamì, che stanno ponendo le giuste premesse per diventare due frecce acuminate nella già nutrita e temibile faretra azzurra.
Come naturale conseguenza del poter vantare “cotanto senno” ecco le due Coppe Davis consecutive.
Il movimento tennistico italiano è apprezzato e invidiato in tutto il mondo. Jannik Sinner è ovviamente il trascinatore, colui che spinge all’emulazione ogni bimbo che imbraccia una racchetta e sogna in scarpette e pantaloncini.
Lui è un fiero esponente della cultura del lavoro. A 13 anni lascia montagne e fiabeschi paesaggi della Val Pusteria per diventare un campione di tennis. Riccardo Piatti è allenatore, mentore e affettuoso papà aggiuntivo. Lo seguirà nell’ascesa al mondo professionistico e gli sarà accanto in occasione dei primi titoli ATP.
Jannik però vuole diventare numero uno, non gli basta essere uno dei più bravi al mondo. E allora, doloroso distacco dal suo scopritore e il duo Vagnozzi-Cahill quale più adeguato volano per salire lì, sul tetto del ranking. Ora il ragazzino di San Candido ce l’ha fatta, ma non è pago. Vuole che la sua favola continui e i grandi del passato diventano il suo termine di paragone, perché se qualcuno è riuscito a vincere 24 major vuol dire che non è impossibile. E lavora ogni giorno, lavora come se non fosse il primo, il più bravo, il più vincente e il più invidiato di questo mondo dorato.
Sobrio e austero come le sue montagne, sa che per restar lì occorre migliorare ogni giorno un dettaglio. E per questo rinuncia al jet set, rifugge la platea sanremese, vive la sua vita da atleta con un rigore che pochi potrebbero applicare.
L’esempio virtuoso può generare effetto domino e già si vedono altri piccoli Sinner all’orizzonte. Magari non vinceranno quanto lui, ma daranno ulteriore forza e sostanza al nostro movimento.
Mentre il tennis esplode con la violenza di un uragano ed entra nelle case coinvolgendo appassionati nuovi di zecca, il calco italiano vive il suo periodo più buio di sempre.
La nostra nazionale, se si eccettua la felicissima parentesi dell’Europeo 2021, con i calci di rigore a consentirci di scavalcare Spagna e Inghilterra per un nuovo trionfo dagli 11 metri, sta collezionando risultati mortificanti e poco rispettosi della nostra storia calcistica.
La 4 volte campione del mondo rischia ora la terza estromissione di fila dalla fase finale. Sarebbe una bocciatura di proporzioni imbarazzanti, perché noi la fase finale la conquistavamo sempre in scioltezza, fino al primo fallimento targato Ventura.
Cosa c’è che non va? Si dirà crisi di talenti. Ed è innegabile che non si veda in questo momento un leader vero, né tanto meno un Baggio, un Del Piero o un Totti a illuminare la scena.
Però il problema è più profondo, perché sia i match degli azzurri che i confronti delle Coppe Europee evidenziano una scarsa preparazione fisica dei nostri calciatori. E non è certo mancanza di tecnici del settore, perché i nostri preparatori atletici vanno per la maggiore e sono spesso appetiti dai più importanti club d’Europa.
È sull’atteggiamento dei protagonisti che dobbiamo porre l’attenzione. I nostri calciatori sembrano viziati e poco inclini al sacrificio. È proprio quella cultura del lavoro che dovrebbe essere alla base di ogni carriera e d’ogni ambizione che viene palesemente a mancare, sostituita da atteggiamenti irritanti, leggi l’accentuare effetti di ogni contatto subito, il protestare sistematico, l’indolente ricerca di capri espiatori per propri errori. Il calcio italiano è oggi una grottesca commedia in cui il correre, il sudare e il lottare sembrano diventati accessori trascurabili.
Ricordiamo che il più grande atleta della nostra storia, Pietro Mennea da Barletta, lavorava così tanto che una delegazione americana in visita a Formia ritenne d’esser vittima di uno scherzo. Quando Vittori spiegò a quegli ospiti d’Oltreoceano che quella che avevano appena visto era persino una blanda seduta di allenamento, gli allenatori stelle e strisce reagirono come se avessero visto l’unicorno o la Fata Morgana, stupiti da quel ragazzo che non aveva il fisico scultoreo dei loro allievi ma una volontà forgiata nel ferro e nella fatica.
E allora perché il calcio possa tornare all’antica gloria e imitare il percorso lodevole di Sinner e degli altri esponenti della “valanga azzurra” 2.0, c’è una sola ricetta: testa bassa e lavorare.

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