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Vittorio Macioce si racconta: “La Valle di Comino, il Festival delle Storie e quell’intervista a Montanelli”

Redazione
Agosto 20, 2025
Vittorio Macioce

di Libero Marino

La sua è una storia singolare, che merita di essere raccontata. Proprio come le tante che nutrono e arricchiscono la Valle di Comino di cui è figlio, quella terra di mezzo che il suo Festival delle Storie ha riscattato e nobilitato. Un segmento affascinante di Ciociaria che, da qualche anno, ha tolto finalmente il velo aprendosi al mondo e vibrando di parole, emozioni e tanta cultura. Merito di Vittorio Macioce, classe 1967, firma autorevole de “Il Giornale”, di cui è anche caporedattore.


Un percorso, il suo, luminoso, costellato di tante sfide che il giornalista e scrittore di Alvito ha sempre vinto. Come quella del Festival, di cui è stato ed è deus ex machina, insieme (ci tiene a sottolinearlo) a Rachele Brancatisano. La sua valle, dunque, è pronta di nuovo a raccontarsi e a stupire, illuminandosi di incanto e magia: sta per alzarsi il sipario su una quindicesima edizione che non tradirà le attese.


E’ un miracolo che ogni anno, da ormai più di tre lustri, si rinnova: dal 25 al 31 agosto sei paesi saranno protagonisti in una settimana tutta da vivere e scoprire, animata – come di consueto – da tanti ospiti come giornalisti, attori, registi, scrittori e filosofi.


Intervisto Macioce durante un capriccioso pomeriggio di agosto dal sapore quasi autunnale. Mi risponde dall’ufficio della sua redazione milanese, concedendosi una breve pausa dai suoi numerosi impegni di lavoro. Ne esce fuori una piacevole chiacchierata dove il giornalista si racconta ripercorrendo le tappe salienti della sua straordinaria carriera.

A beneficio di quei pochi che non la conoscessero: chi è Vittorio Macioce?

” “Uno che ha sonno”, come disse alla Domenica Sportiva l’allenatore Manlio Scopigno a Enzo Tortora, subito dopo la vittoria dello scudetto del suo Cagliari, nel 1970. Scherzi a parte, sono un giornalista che è riuscito a coronare il suo grande sogno”.

Iniziato tanti anni fa nella sua Alvito…

“Sì, ero giovanissimo e frequentavo, a Sora, il liceo scientifico “Leonardo da Vinci”. Volevo fare il giornalista, i miei amici mi prendevano in giro, mi dicevano che ero un presuntuoso, un visionario. Vivevo in una piccola realtà in cui il mestiere di giornalista non rientrava, in effetti, nel novero di quelli più comuni, come l’avvocato o l’insegnante. Avrei potuto seguire le orme dei miei genitori, mio padre era meccanico, mia madre aveva un forno. La mia vita, invece, ha preso una direzione diversa”.

Mi racconti…

“Grazie proprio ai miei genitori ho avuto la fortuna di frequentare la LUISS laureandomi in Scienze Politiche. Sempre nell’ateneo privato romano ho poi frequentato la scuola di giornalismo, anche se allora non dava il praticantato. Più tardi ho fatto il servizio militare nel CeMiSS, il centro militare di studi strategici, dove realizzai, per le forze armate, il primo database del terrorismo islamico. Mi occupavo anche del conflitto in Medio Oriente. Un’esperienza molto importante, dopo la quale ho iniziato lo stage (1992) alla “Nuova Venezia”, dove ho mosso i primi passi da giornalista. Ma la svolta della mia carriera sarebbe arrivata qualche anno dopo…”

Quando, esattamente?

“Archiviata la parentesi in laguna, tornai a Roma dove alcuni miei cari amici universitari come Andrea Mancia, Cristina Missiroli e Fausto Carioti (oggi vicedirettore di “Libero”) mi presentarono ad Arturo Diaconale, allora direttore dell’ “Opinione” che, da settimanale, di lì a poco sarebbe diventato quotidiano. Iniziai a collaborare come cronista parlamentare, fu una palestra importante: ricordo con piacere quando fui inviato a Fiuggi, nel 1994, ad assistere alla famosa svolta in seno alla Destra quando l’MSI lasciò il testimone ad Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini”. 

E poi?

“Ero su di giri, Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale, leggeva ogni giorno i miei pezzi. Ho poi collaborato con “Ideazione”, la rivista bimestrale del centrodestra, “Panorama” e “Il Foglio” prima di partire – come inviato freelance – a seguire la guerra del Kosovo (1998). Dopo quell’esperienza fui contattato da Maurizio Belpietro, allora direttore de “Il Tempo”, il quale mi chiese una collaborazione, da esterno, sulle pagine culturali del suo giornale. Due anni più tardi lo stesso Belpietro passò a dirigere “Il Giornale” e si ricordò di me chiedendomi se fossi disposto a continuare a scrivere di cultura sul suo nuovo quotidiano. Non esitai un istante e partii subito per Milano dove fui nominato vicecaporedattore delle pagine culturali. E’ la mia casa da 25 anni”.

Come nasce l’idea del Festival delle Storie?

“Nel 2009 io e l’amica Rachele Brancatisano (autrice di un giorno da pecora) rompemmo gli indugi e ci tuffammo con incoscienza in quest’avventura. Ci spinse il forte desiderio di far conoscere la nostra bellissima valle illuminandola attraverso i racconti e le storie: volevamo fare i contadini con le armi della cultura. Un’operazione lungimirante tesa a restituire una nuova identità al nostro territorio, portando il mondo a casa nostra. A distanza di 16 anni possiamo dire che quella sfida quasi impossibile l’abbiamo vinta. La Valle di Comino è diventata la perla della Ciociaria, è una meta gettonata che oggi abbonda di strutture ricettive con positive ricadute sul turismo. Quando siamo partiti, non sapevamo dove far alloggiare i nostri ospiti, oggi, per fortuna, la prospettiva è totalmente cambiata, il nostro territorio ha guadagnato visibilità grazie anche ad altre iniziative importanti come Atina Jazz, Pastorizia in Festival e GallinaRock. E’ lievitato – nel frattempo – anche l’interesse intorno al nostro Festival. Quelli che, all’alba del nostro progetto, erano bambini, oggi sono adulti e collaborano con noi senza lesinare energie, alcuni sono anche diventati giornalisti, attori e scrittori: è cambiato radicalmente l’approccio nei confronti dell’evento. E questo ci rende molto orgogliosi”.

L’edizione più bella?

“Indubbiamente la prima. All’epoca non si chiamava ancora Festival delle Storie e fu organizzata dall’associazione “All’antrasatta”. In quell’anno riuscimmo in un colpo clamoroso: fu nostro ospite Grayson Capps, una star della musica folk americana, autore della colonna sonora del film Una canzone per Bobby long con John Travolta e Scarlett Johanson. Lo avevo conosciuto in un festival blues di Piacenza, dove mi trovavo per parlare di letteratura americana. Ci incontrammo in un pub e gli parlai del mio progetto, chiedendogli se volesse venire a suonare nella nostra valle. Si mostrò subito interessato e mi disse che, dopo la tappa di Bologna, mi avrebbe raggiunto in treno in Ciociaria. Andai a prenderlo il pomeriggio successivo, alla stazione di Frosinone, dove scese intorno alle 16. Due ore dopo era a Villa Grancassa, a San Donato Val Di Comino, dove incantò fino all’alba davanti a una trentina di persone in delirio. Una giornata indimenticabile”.

La storia più curiosa?

“Quella di Ralph Minichiello, il personaggio italoamericano che ha ispirato Rambo. Una storia incredibile che raccontammo in anteprima mondiale nell’edizione 2014 del Festival. Ralph era un soldato speciale, un reduce del Vietnam, e si rese protagonista del dirottamento aereo più lungo e rocambolesco di sempre partito dagli Stati Uniti e culminato a Roma. Dopo il carcere in Italia, progettò un attentato a una equipe di medici, rei, secondo lui, della morte della moglie. Una vita a dir poco burrascosa che finalmente trovò un lieto epilogo quando incontrò un pastore protestante che riuscì a convertirlo. Lo portai a pranzo con una incredula Sara Simeoni (una delle ospiti di quella edizione) e un’ambasciatrice americana, appassionata di salto in alto, la quale, incuriositasi, mi chiese chi fosse quel signore seduto accanto a me. Andai in crisi e riuscii a cavarmela dicendole una mezza verità: “E’ un reduce del Vietnam”, risposi all’importante ospite statunitense”.

E’ sulla breccia da ormai 30 anni: che giornalismo è quello di oggi?

“E’ cambiato molto, oggi l’informazione corre velocemente attraverso internet, è diventata un prodotto più facilmente fruibile, qualcosa di molto simile a tik tok. Ma il giornalismo vero è un’altra cosa. Mi auguro che si torni alle origini, ai Barzini, ai Montanelli, agli Ojetti, ai Biagi e ai Pansa, tanto per citare alcuni inarrivabili maestri. Il giornalismo non deve mai venire meno alla sua funzione, che è quella di raccontare la realtà senza la pretesa di essere oggettivi, ma con la promessa di essere sempre sinceri, portando il lettore dentro i tuoi occhi”.     

Ha citato il sommo Montanelli: che effetto le fa scrivere editoriali in quello che fu il suo spazio?

“Dopo tanti anni ancora faccio fatica a crederci. E’ stato un gigante, il mio faro insieme a Buzzati. Ho avuto il grande privilegio di intervistare l’immenso Indro”.

Mi dica pure…

“Era il 1998, due anni prima che entrassi al “Giornale”. Rischio di essere presuntuoso ma devo raccontarglielo. Lo intervistai nel suo ufficio di Milano, la nostra chiacchierata era incentrata sul mestiere dell’inviato speciale, il mio sogno di sempre. Dopo l’intervista parlammo di storia e letteratura e, in chiusura, Montanelli mi gelò dicendomi che non ce l’avrei mai fatta col giornalismo. “Cavolo, pensai, sono appena stato scomunicato dal Papa”. Gli chiesi spiegazioni, mi rispose così: “sei troppo colto per fare questo lavoro”. Poi, nel congedarmi, mi accarezzò la guancia invitandomi a non cambiare mai. Non penso di aver mai infranto quella promessa, non credo di essere cambiato da allora restando l’anarchico – conservatore che sono sempre stato”.

Altre interviste importanti?

“Quella allo scrittore italoamericano Don DeLillo, a New York, un posto dove mi sono sempre sentito a casa, abituato da sempre a cibarmi di tanti film americani e anche perchè – dalle parti del Bronx – viveva una mia zia, la sorella di mia madre. Durante la nostra chiacchierata DeLillo mi raccontò a sorpresa – lui tradizionalmente schivo e scostante – la sua italianità. Scoprii che era cresciuto proprio nella zona dove viveva mia zia. Una bella emozione pure quella”.

La cosa di cui è particolarmente orgoglioso?

“Sono diverse. Giornalisticamente parlando, penso alle Olimpiadi di Rio del 2016, un’esperienza meravigliosa. Ho ancora la saudade. Poi ricordo il periodo in cui ero inviato all’Aquila per raccontare il tragico terremoto del 2009. Ma la cosa che più mi rende felice è sapere che non c’è bisogno che io firmi un articolo perchè il mio stile è riconoscibile. Me lo dicono in tanti, compresa mia madre, e lo considero il più bello dei complimenti”.

Spesso il suo volto fa capolino in tv…

“Lo faccio quasi per dovere. Non mi piace troppo apparire, ma in un mondo in cui la scrittura è in crisi il mio lavoro mi porta fatalmente a diventare un volto.”

Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo: ha altri progetti editoriali in cantiere?

Lo Dice Angelica è un romanzo che è la versione dell’Angelica dell’Orlando Furioso raccontata come una giovane influencer, anche se è tutto ambientato nel mondo della chanson de geste. Ho promesso alla mia casa editrice, la Salani, di pubblicare presto un secondo romanzo, genere che mi piace molto. Poi ho in mente di scrivere qualcosa sui pionieri del calcio”.

A proposito, lei è un grande appassionato di football, il campionato è alle porte: chi vincerà lo scudetto?

“Non mi pronuncio, sono rimasto troppo scottato dall’epilogo dell’ultima Champions League. L’Inter, comunque, rimane una delle passioni più grandi della mia vita”.

Se non avesse fatto il giornalista, che cosa le sarebbe piaciuto fare?

“Il giornalista. Non sarei riuscito a immaginarmi diversamente”.

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