A otto anni, mentre attendevo il mio turno dal barbiere, mi capitó tra le mani una rivista sportiva. Si chiamava “Hurrà Juventus” e al suo interno esaltava le prodezze di un giovane centravanti. Le mie capacità di analisi del testo erano quelle di un bambino e come ogni bambino mi abbeveravo alle metafore e sognavo dietro quelle immagini strappate a una domenica pomeriggio e a un rettangolo di gioco.
Il giovane centravanti era già campione d’Europa e si chiamava Pietro Anastasi. Proprio lui aveva segnato il gol del 2/0 nella finale bis del campionato europeo del 1968 contro la Jugoslavia. Quando arrivò il mio turno avevo due domande irrisolte in meno: la mia squadra era la Juventus ed il mio giocatore preferito era lui, quel siciliano dalle sopracciglia abbondanti e dallo sguardo intelligente.
Da quel giorno e fino al momento del suo ritiro palpitai per lui e per la sua Signora. Quando le strade si divisero decisi che alla regola ferrea del bianco e nero avrei potuto imporre due eccezioni all’anno, perché lui restava la Juve anche se indossava un’altra maglia e perché non poteva esserci un giocatore capace più di lui di carpire la mia immaginazione.
La mia visione del calcio era diventata più matura, ma parimenti immaginifica. Più dei risultati, che pure premiavano piuttosto regolarmente la mia squadra, mi piacevano il gesto rapace, l’attimo magico, il guizzo. E delle giocate estrose, dei gol che sembravano prodotti dalla fantasia, di quei gesti fulminei ed eleganti, il mio Pietro Anastasi era il paladino più credibile.
Immagini disordinate ma non per questo meno salde nel mio cuore: il gol in rovesciata al Milan nel 70, i tre gol in 4 minuti alla Lazio, da subentrato, il gol in azzurro all’Haiti, nei mondiali del 74. Fino a pochi anni fa i 78 gol in A di Pietruzzo in maglia bianconera li ricordavo tutti, perché le gioie non si dimenticano, vagano in un luogo della memoria che ritrovi ogni volta che sorridi.
Il centesimo gol in A Anastasi lo segnò con la maglia dell’Ascoli, proprio alla sua Juve. Strani incroci di uno sport magico. Ricordo il dissidio di quel giorno, la mia anima divisa e lacerata tra due amori per un po’ incompatibili.
Ho visto all’opera migliaia di giocatori e tra essi tanti fuoriclasse. Nessuno però potrò mai amarlo così, perché quando si sceglie il proprio campione a otto anni, si compie un giuramento solenne che non ha eguali, non ha regole e non ha limiti.
Ora Pietro Anastasi, campione d’Europa a vent’anni, campione d’Italia tre volte con la Juve, centravanti sublime e uomo perbene, è dove non esistono il tempo e il dolore.
Lì, nella dimensione in cui anche in pieno giorno risplendono le stelle, corre ancora felice, sorride e sogna. Sogna di un ragazzino del Sud diventato grande a Torino, nella città delle fabbriche, dell’austera Mole Antonelliana, della Fiat. Sogna una bellissima storia in bianco e nero. Tanti auguri Pietruzzo, e grazie delle incredibili emozioni che ci hai regalato.