Strani scherzi gioca il destino. Siamo nell’epoca del web planetario e del massimo della diffusione dei mezzi di comunicazione. E’ il tempo della infodemia. Eppure, a questo diluviante bla bla rispondiamo operando una riduzione e un impoverimento del lessico. La parola non serve più. L’abbiamo degradata a vocabolo e identificata col medium comunicativo. Blateriamo ma siamo muti.
Degradata a vocabolo e identificata col medium comunicativo, rischia di perdere il proprio destino. Eppure, nonostante sia ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ormai preda dell’ignoranza e dell’ipocrisia, la parola ci chiede di ricongiungersi alla cosa. Un compito difficile e, a tratti, drammatico, perché la realtà si fa sempre più sfuggente e smaterializzata. Una realtà di cui si prende carico un libro di grande interesse “Benedetta parola. La rivincita del tempo” (il Mulino, 184 pagine, 19 euro) di Ivano Dionigi.

Costruttori di una quotidiana Babele, avvertiamo tuttavia il bisogno di un’ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di illuminare, non di nascondere e sequestrare la realtà; che ci consenta di capirci e di leggere il mondo con occhi non affollati da giudizi né offuscati da pregiudizi. La parola non è proprietà personale né creazione del presente ma si iscrive nella dimensione sociale e storica. Moduliamo le stesse parole con le quali i nostri antenati per secoli hanno organizzato e promosso il pensiero. “Quando diciamo crisi, etica, fisica, logica, politica, tecnica, noi parliamo greco; quando diciamo classico, cultura, repubblica, religione, morale, natura, scienza, noi parliamo latino. Delle tre parole più usate in questi due anni orribili, pandemia è greca, virus e vaccino sono latine. Il continuum della tradizione ci ricollega e ci imparenta con quanti hanno parlato e scritto prima di noi e per noi” riflette Dionigi. “Questa eredità diventa orizzonte di alterità e alternativa per i nostri giorni, nei quali la profondità, verticalità e metamorfosi del tempo (affidate alla parola) sono messe all’angolo e soppiantate dalla superficie, orizzontalità e linearità dello spazio”. Siamo afflitti dal “provincialismo del tempo” come avrebbe detto Eliot. Dimentichi dei padri e noncuranti dei posteri, crediamo di essere gli unici detentori delle azioni di quel capitale che si chiama vita. E tuttavia noi abbiamo bisogno di fare pace col tempo. Solo così la parola, carica di storia, tradizione, paternità, tornerà a garantire il primato e la rivincita del tempo, Perché essa tende il filo ininterrotto che tiene insieme la memoria dei padri e il destino dei figli. “Nomina sunt consequentia rerum” del resto. Ciò vuol esternare la convinzione che i nomi rivelino l’essenza o alcune qualità della cosa o della persona denominata. Un legame fitto e stretto tra verbo e realtà, tra logos e alfabeto.